Il flusso di decisioni giurisprudenziali sul tema dell’amministrazione condivisa prosegue, come del resto è del tutto lecito attendersi. Se, infatti, il metodo dell’amministrazione condivisa – così come declinato dal codice del Terzo settore – inizia a diffondersi significativamente sul territorio nazionale, è fisiologico che possa insorgere un contenzioso destinato a sfociare davanti al giudice amministrativo. Ciò è ancor più vero in una fase che, tutto sommato, è ancora iniziale di applicazione delle Linee guida ministeriali (dm n. 72/2021) e delle legislazioni regionali e dei regolamenti degli enti locali che stanno disciplinando il tema. L’approfondimento della ricerca sulle dimensioni numeriche e di risorse di co-programmazioni e di co-progettazioni consentirà di fare delle valutazioni sul tasso di conflittualità che tali procedimenti comportano. L’impressione – che potrà essere falsificata dalla prassi – è che siano complessivamente tassi di conflittualità molto bassi.
Due recenti sentenze del Consiglio di Stato (5217/2023 e 5218/2023), pronunciate a partire da due casi originati da avvisi di uno stesso Comune, già decisi dal Tar Lazio, affrontano alcune questioni di ordine generale che meritano di essere sottolineate. Non ci si soffermerà sul caso concreto, quindi, ma su tre temi di diritto che appaiono essere importanti per il dibattito e la riflessione sul diritto dell’amministrazione condivisa.
La prima questione – da non considerare scontata – ribadisce che l’istituto della co-progettazione è preordinato all’individuazione di uno (o più) partner del Terzo settore con il quale «collaborare nella stesura della puntuale progettazione degli interventi previsti nell’atto programmatico, insieme con l’amministrazione procedente». La convenzione costituisce l’esito di questa fase progettuale di singoli servizi o interventi. Ciò significa che gli avvisi di co-progettazione non debbono contenere allegati o, comunque, indicazioni stringenti, del tutto assimilabili ad un capitolato d’appalto, nel quale l’apporto del Terzo settore nell’ideazione dell’intervento sia assente. Si configura – a giudizio del Consiglio di Stato – un illegittimo utilizzo degli istituti della co-progettazione, poiché si tratterebbe, in realtà, di un ordinario appalto di servizi sociali. Nel caso specifico, poi, si aggiunge – come ulteriore elemento sintomatico – una dubbia previsione in termini di rimborsi, che il giudice ritiene essere un corrispettivo mascherato. Si tratta di un approccio condivisibile, che riprende un filone giurisprudenziale già consolidato (cfr., ad es., Tar Lombardia, I sez., 3 aprile 2020, n. 593; Consiglio di Stato, V sez., 07 settembre 2021, n. 6232). L’elemento distintivo della co-progettazione è il contributo – ideale e materiale – che gli enti del Terzo settore (Ets) e la Pa decidono di condividere, all’interno di un procedimento amministrativo improntato al principio di sussidiarietà (come afferma C. cost. 131/2020). Se tale contributo collaborativo è assente o è minimo, si ricade nello schema committente/agente o, per altro aspetto, prestazione/corrispettivo che esige l’applicazione del Codice dei contratti pubblici (anche alla luce del nuovo art. 6 Ccp).
La seconda questione riguarda il rapporto fra l’art. 55 e 56 del codice del Terzo settore (Cts). Le sentenze sono percorse da una certa ambiguità concettuale fra la portata dell’art. 55 Cts (co-programmazione, co-progettazione e accreditamento) e dell’art. 56 Cts (convenzioni con Odv e Aps). L’art. 55 Cts e l’art. 56 Cts si riferiscono a due istituti diversi. Sotto il profilo soggettivo, l’art. 55 CTS si applica a tutti gli enti del Terzo settore, mentre l’art. 56 Cts è applicabile alle sole Odv e Aps, quali enti del Terzo settore a più forte matrice solidaristica essendo caratterizzati dall’apporto prevalente dei volontari associati. Sotto il profilo oggettivo, invece, l’art. 55 Cts riguarda tutte le attività di interesse generale, mentre l’art. 56 Cts riguarda i soli servizi sociali di interesse generale. Sotto il profilo procedimentale, l’art. 55 Cts si caratterizza per l’apporto collaborativo che Ets e Pa danno al fine di definire specifici progetti di servizio o intervento; l’art. 56 Cts, invece, si fonda su una valutazione comparativa fra Odv e Aps, sulla base quindi di avviso che definisce puntualmente l’attività che sarà oggetto di convenzione, ed esige una puntuale motivazione del maggior favore rispetto al ricorso al mercato (nel senso indicato dal Dm 72/2021).
Ciò comporta che gli sviluppi interpretativi dell’una disposizione non sono riversabili immediatamente sull’altra: esiste una specificità reciproca dell’art. 55 e dell’art. 56 Cts, che non consente di costruire gerarchie o di proiettare automaticamente procedure e contenuti fra l’uno e l’altro. Diversamente, il Consiglio di Stato interseca i due piani, con esiti problematici e contraddittori. Ad es., nella sentenza n. 5218/2023 si definiscono (correttamente) quattro fasi procedimentali che contraddistinguono la co-progettazione, salvo poi accogliere una definizione di rimborso delle spese e di apporto del volontariato mutuata dall’art. 56 Cts. Si tratta di un esito non condivisibile e che rischia di essere foriero di molte confusioni concettuali.
Uno degli assi intorno ai quali ruota la sentenza è il concetto di gratuità. Ed è questa la terza questione. Gratuità, in questo ambito, a giudizio di chi scrive, deve essere interpretata come assenza di un incremento patrimoniale dell’ente del Terzo settore che partecipa derivante dalla specifica attività oggetto di convenzione. Si tratta di una nozione pubblicistica, che non si identifica con l’assenza dello scopo di lucro soggettivo disciplinato dall’art. 8 Cts ai fini dell’iscrizione al Runts, o all’assenza di scopo di lucro oggettivo dell’ente. Le spese effettivamente sostenute e documentate dall’ente del Terzo settore possono essere oggetto di rimborso, sia se riferite ai cosiddetti costi diretti (qualsiasi essi siano) sia se riferite ai costi indiretti, limitatamente a ciò che attiene ai progetti o servizi interessati, ovviamente. In questo, il Consiglio di Stato – pur senza dirlo – innova il proprio orientamento precedente, in quanto il richiamato e discusso parere n. 2052/2018 richiedeva, al contrario, come requisito necessario una concezione rigida ed assolutistica della gratuità, intesa come «un aumento patrimoniale di un soggetto, in questo caso la collettività, cui corrisponde una sola e mera diminuzione patrimoniale di altro soggetto, cioè il depauperamento del capitale lavoro o del patrimonio del prestatore». Il Consiglio di Stato, oggi, afferma che è esclusa la possibilità di rimborsare forfetariamente spese o costi diretti o indiretti, ma non si spinge (più) ad affermare che determinate voci di costo sopportate dall’Ets non risultano in linea di principio ammissibili al rimborso.
Il tema di una gratuità – come nozione di diritto pubblico, finalizzata a determinare una delle linee distintive fra Codice dei contratti pubblici e Codice del Terzo settore – merita comunque di essere approfondito in futuro, per la costruzione di un linguaggio comune fra gli attori pubblici e del Terzo settore.
* Scuola Superiore Sant’Anna, Centro di ricerca Maria Eletta Martini